questa è un'altra storia, ma anche in questa io come altri posso identificarmi, posso sentire ogni parola, ogni dolore di cui viene data immagine. Anche Vale, come molti di noi, ha fatto fatica a far capire agli altri, anche alla propria famiglia a volte, la reale presenza di quel dolore, ma ancora oggi tutti noi siamo qui e lottiamo aogni giorno con lui per andare avanti molto più forti ora che a tutti è conosciuta la vera identità di quel peso che abbiamo sulle spalle.
Ora Vale ha qualcosa che io non avrei saputo definire meglio: la dignità del Dolore.
"Mi chiamo Vale e sono nata tre volte: la prima 32 anni fa, quando mia madre mi ha data alla luce. La seconda l'11 novembre del 1992; non dimenticherò mai il giorno dal quale, per un banalissimo incidente di gioco, è iniziata la mia "storia".La terza il 27 gennaio 2012, il giorno in cui finalmente, dopo quasi venti anni di domande senza risposta, è stato dato un nome al mio dolore: Ehlers - Danlos, forma ipermobile.
Non so raccontare come sia vivere con l'Ehlers - Danlos, perché ho consapevolezza di ciò da troppo poco tempo; posso però provare a raccontare cosa significhi vivere con il dolore. Quello fisico si, ma più che altro con quello che ti porta quasi ogni giorno a chiederti "ma allora, se nessuno capisce il mio dolore, se ogni medico che incontro mi dice che non ho nulla...ma allora, sono pazza?!?".
Non so raccontare come sia vivere con l'Ehlers - Danlos, perché ho consapevolezza di ciò da troppo poco tempo; posso però provare a raccontare cosa significhi vivere con il dolore. Quello fisico si, ma più che altro con quello che ti porta quasi ogni giorno a chiederti "ma allora, se nessuno capisce il mio dolore, se ogni medico che incontro mi dice che non ho nulla...ma allora, sono pazza?!?".
Ecco, vorrei partire dall'idea di pazzia per raccontarvi chi sono e perché lo sono: avevo 12 anni il giorno in cui la mia vita è cambiata. Mi sono svegliata una mattina e sono dovuta "crescere", ho dovuto rinunciare ad alcune piccole cose che però, a quell'età, sembrano enormi. Non sono andata a ballare in discoteca il sabato pomeriggio da adolescente e nemmeno quando ero più grande, non sono mai stata in settimana bianca perché il mio ginocchio non ne sarebbe stato molto felice, ho passato giornate intere sdraiata sul letto mentre i miei amici si incontravano per giocare o, una volta più grandi, andarsene in giro per il centro di Roma.Oggi mi rendo conto di aver perso poco, ma all'epoca ha fatto male, parecchio male perché gli adolescenti credono di essere immortali e di poter fare tutto, e non possono concepire che uno di loro non possa fare la stessa cosa. Guardavo loro e vedendo che,in apparenza, che è l'unica a saltare subito all'occhio, sembravo uguale a loro ho passato anni ed anni a chiedermi perché allora non potevo anche essere come loro.
Il mio primo intervento è arrivato a 13 anni, l'ultimo - ovvero il decimo - pochi mesi fa, a 31 anni e mezzo. Detto così sembra nulla, ma il percorso è stato decisamente più lungo e difficoltoso dell'impegno che ho dovuto mettere per spingere i tasti che trasformano l'esperienza in parole...
Ho sofferto, non che sia stata l'unica sia chiaro, ma ho sempre cercato in qualche modo di nascondere questa cosa; in fondo se ero pazza, ma di quella pazzia strana che nessuno conosce, che senso avrebbe avuto "buttare" sugli altri un dolore inutile, invisibile, incurabile?Così ho cercato di fare forza su me stessa, con scarsi risultati, ma con tanto tanto impegno; e allora, anche nei giorni più difficili, indossavo il mio sorriso e via! Ed essendo tendenzialmente una persona molto sorridente, ancora più difficile era spiegare quei momenti di scatti improvvisi, di silenzi insuperabili, i momenti in cui cercavo di evitare il mondo. Solo ora posso dire che tutto quello era dovuto a un qualcosa che è nato e morirà con me: i miei geni mattacchioni.
Da quando ho avuto la diagnosi il mio pensiero costante è "mamma mia, che fortuna ho avuto...di tante mutazioni genetiche a me la sorte ne ha riservata una delle più leggere". E da quel momento mi torna in mente una frase che mi ha detto il dottore durante la visita, quando mi ha detto "nessuno ti credeva quando eri bambina, ma tu lo capivi che eri diversa, vero?". In quel preciso istante l'ho guardato negli occhi e ho pensato che finalmente, dopo venti lunghissimi anni, qualcuno stava veramente guardando oltre ciò che sembro, stava guardando me, la mia anima. Ammetto che mi commuove pensare a quel momento...è stato come se quell'uomo avesse trovato una crepa nella corazza di ghiaccio che mi ero messa addosso; per la prima volta ho visto in faccia la speranza di pensare che un giorno sarei stata libera di essere me stessa veramente.
Ovviamente la mia vita non si è stravolta dal momento in cui ho avuto la diagnosi: c'è chi ancora mi guarda come se fossi pazza, chi non mi crede e chi non mi crederà mai. Ma io so che quello che ho sempre sentito esiste, la verità che ho inseguito per anni finalmente è arrivata; so che ho lottato per qualcosa che finalmente stringo tra le mani: la dignità del dolore. Si potrebbe parlare per ore del dolore, ma la cosa più importante che ho imparato dal mio dolore è che ogni dolore è importante per chi lo prova e nessuno, ripeto nessuno, dovrebbe permettersi di giudicare o deridere chi soffre. Il dolore è la cosa più intima che ci sia, molti posso capirti nella gioia, ma veramente pochissimi hanno il coraggio di guardarti negli occhi mentre soffri.
Non so cosa sarà il domani, ma so che da ieri ho imparato un pochino di più a guardare prima di tutto nei miei occhi..."
Da quando ho avuto la diagnosi il mio pensiero costante è "mamma mia, che fortuna ho avuto...di tante mutazioni genetiche a me la sorte ne ha riservata una delle più leggere". E da quel momento mi torna in mente una frase che mi ha detto il dottore durante la visita, quando mi ha detto "nessuno ti credeva quando eri bambina, ma tu lo capivi che eri diversa, vero?". In quel preciso istante l'ho guardato negli occhi e ho pensato che finalmente, dopo venti lunghissimi anni, qualcuno stava veramente guardando oltre ciò che sembro, stava guardando me, la mia anima. Ammetto che mi commuove pensare a quel momento...è stato come se quell'uomo avesse trovato una crepa nella corazza di ghiaccio che mi ero messa addosso; per la prima volta ho visto in faccia la speranza di pensare che un giorno sarei stata libera di essere me stessa veramente.
Ovviamente la mia vita non si è stravolta dal momento in cui ho avuto la diagnosi: c'è chi ancora mi guarda come se fossi pazza, chi non mi crede e chi non mi crederà mai. Ma io so che quello che ho sempre sentito esiste, la verità che ho inseguito per anni finalmente è arrivata; so che ho lottato per qualcosa che finalmente stringo tra le mani: la dignità del dolore. Si potrebbe parlare per ore del dolore, ma la cosa più importante che ho imparato dal mio dolore è che ogni dolore è importante per chi lo prova e nessuno, ripeto nessuno, dovrebbe permettersi di giudicare o deridere chi soffre. Il dolore è la cosa più intima che ci sia, molti posso capirti nella gioia, ma veramente pochissimi hanno il coraggio di guardarti negli occhi mentre soffri.
Non so cosa sarà il domani, ma so che da ieri ho imparato un pochino di più a guardare prima di tutto nei miei occhi..."
Piddyvale